07.10.2015 – Nel Notiziario LAMNIC (così si chiamava ai tempi l’Anmic) del giugno 1975, in una intervista sui problemi dell’assistenza all’infanzia, a firma di Alberto Mutti, attuale presidente Anmic Parma e vice presidente nazionale Anmic, l’assessore Mario Tommasini spiegava: “… Inoltre nell’ambito della scuola è stato possibile arrivare ad un accordo con il Provveditore agli Studi per il progressivo scioglimento della scuola speciale, riportando i ragazzi nelle loro scuole di quartiere o frazione. Questa è una prima risposta ad un lavoro costante che per 5 anni ha coinvolto le autorità scolastiche, maestri, operatori sociali, famiglie, enti morali, quartieri, e, in particolare, Enti Locali. Questo è già un contributo concreto per un ulteriore passo in avanti verso la stipulazione di una convenzione che dia agli Enti Locali la possibilità di operare in continuità nella scuola, per risolvere i problemi degli handicappati, estendendo l’intervento a tutta la comunità scolastica. Le esperienze vissute e i risultati ottenuti hanno fatto maturare la convinzione che ogni tipo di handicap va risolto nell’ambiente naturale”.
Grazie a Mario Tammasini, e non solo, nel 1975 a Parma si iniziò, in netto anticipo rispetto al resto del Paese, il percorso di superamento delle classi differenziali, ovvero le classi speciali composte da soli disabili, che vennero poi abolite dalla legge 517 del 1977.
Grazie all’Amministrazione Pizzarotti e all’Assessore al Welfare Laura Rossi, Parma, da città all’avanguardia nell’integrazione scolastica rischia di intraprendere un pericoloso percorso inverso.
Spaventano le dichiarazioni rilasciate nella conferenza stampa di qualche giorno fa, cui purtroppo solo alcuni media locali hanno riservato la giusta attenzione. Ecco la risposta, riportata da rossoparma.com, dell’assessore Rossi ai genitori che lamentano la compresenza di due, tre o quattro alunni disabili con un solo educatore: “Molto dipende dai punti di vista: ci sono anche altre città ed altre scuole che comunque si organizzano con attività laboratoriali. Io sono convinta che non sempre e non per tutti i bambini sia utile restare 30 ore tra i compagni a scuola, perché i bambini hanno altri bisogni. Non è detto che il bambino non apprenda di più che dentro una classe dove c’è confusione, per cui se una scuola riesce ad organizzare dei laboratori con quei bambini che possono essere compatibili tra di loro…e poi credo che stia anche nell’autonomia della scuola. Stiamo ragionando su un lavoro di équipe per uscire anche dalla logica dell’assegnazione individuale, che è vero che c’è ma che non coprirà mai il numero totale di assegnazione scolastica. L’idea è che con il pacchetto di ore degli educatori, salvaguardati i bisogni individuali, ci sia anche la possibilità di coprire più ore per più bambini. L’idea di stare assieme è anche per coprire più ore possibili, non per togliere necessariamente diritti”.
Dichiarazioni cui si aggiungono quelle di Mattia Affini, presidente della cooperativa Aldia: “Può anche essere utile l’attività di gruppo, può diventare una sorta di sperimentazione; perché l’educatore può proporre stimoli e attività come in classe a volte non succede”.
Questa “sperimentazione” si applicava prima del 1975, i “laboratori” si chiamavano classi differenziali, ma già quarant’anni fa si era constatato che le cose non funzionavano, tanto da abolirle per legge. L’Amministrazione e le cooperative aggiudicatrici hanno imboccato una strada pericolosa: invece di 200mila euro si potrebbero allora risparmiarne 400mila, o 600mila, basterebbe aumentare le ore di “laboratorio”. E’ in questa direzione che si sta portando l’integrazione scolastica? Come abbiamo già sottolineato di recente gli alunni con disabilità non sono matite, i loro diritti non possono essere sacrificati sull’altare del budget.
Non possiamo che consigliare al sindaco, all’assessore e ai vertici delle cooperative aggiudicatrici del servizio di integrazione scolastica, di documentarsi sulla storia della città e sull’operato di Tommasini e di tante altre persone che hanno lottato e lavorato duramente, fino a fare di Parma un esempio di integrazione a livello nazionale. E’ necessario che siano consapevoli di aver intrapreso un percorso che rischia di mandare in fumo decenni di esperienza e di eccellenza.
La sezione provinciale di Parma dell’Anmic si chiede, e chiede all’amministrazione comunale, quale futuro ci aspetta, se queste sono le premesse.