17.03.2011 – Il Parlamento italiano ha recepito, con la legge n. 18 del 3 marzo 2009, la Convenzione sui Diritti delle Persone Disabili approvata dall’Onu il 13 dicembre del 2006.
L’importanza della Convenzione, che sarà uno degli argomenti trattati nella relazione del Presidente in sede congressuale, fu subito evidente per l’Anmic di Parma che, prima associazione in Italia, la fece subito tradurre e poi curò la pubblicazione, in collaborazione con Comune e Università, di 15mila copie del documento; distribuito in tutte le scuole elementari, medie e superiori, dove è stato anche illustrato dal Presidente Mutti, dall’assessore Bernini e dalla dott.ssa Caronna dell’Università.
La Convenzione rappresenta una conquista notevole per le persone disabili che, grazie al recepimento dello Stato e dell’Unione Europea, vedono finalmente i loro diritti sanciti in modo inequivocabile per legge.
L’Anmic di Parma, viste anche le vicende all’ordine del giorno in tema di revoca di indennità e pensioni, non può che essere soddisfatta del risultato raggiunto ma invita a non considerarlo un traguardo: sappiamo bene, per esperienza diretta, che il diritto acquisito resta tale solo se difeso quotidianamente da tutti.
Per questo dobbiamo continuare a studiare la Convenzione per valutarne la portata ed ogni eventuale possibilità di miglioramento, e farne oggetto di uno studio di comparazione tra la Convenzione e la Costituzione Italiana, ricavarne nuovi punti di discussione ed eventuali discrepanze tra le due norme.
Per potervi offrire un sunto dei principi contenuti nella Convenzione, riportiamo di seguito alcuni brani dell’intervento dell’avvocato Domenico Sabia, dell’ufficio legale dell’Anmic nazionale, durante un recente convegno: Con la ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei disabili il quadro normativo in materia di lotta alle discriminazioni dei disabili  stato definitivamente completato.
E’ necessario partire da due concetti: disabilità ed inclusione, che costituiscono i pilastri su cui poggia l’intero sistema della Convenzione. Innanzitutto, al punto e) del Preambolo viene introdotto il concetto secondo il quale la disabilità non è solo la mera condizione delle persone che presentano menomazioni fisiche, psichiche, intellettive o sensoriali, ma è l’indice che misura che misura il grado di eliminazione delle barriere comportamentali ed ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri.
Quindi, la disabilità è un concetto non unico in tutti i Paesi e in tutte le epoche, ma può cambiare a seconda degli ambienti che caratterizzano le diverse società.
E’ un concetto storico, che muta sia in riferimento ai diversi modelli di organizzazione degli Stati, sia in relazione alla loro evoluzione storica. In quanto tale, recita l’art. 2 della Convenzione, la disabilità varia a seconda del processo di inclusione che gli Stati favoriscono.
L’inclusione è costituita dalla realizzazione da parte dei Pubblici poteri di una progettazione di prodotti, ambienti, programmi e servizi utilizzabili dalle persone nella misura più estesa possibile. Più ampia l’inclusione, meno visibile è la disabilità, intendendo con ciò dire non che la menomazione scompare ma che scompare l’ostacolo che crea la disabilità e, quindi, la diversità, in quanto impedisce l’accesso alle pari opportunità.
Nella forbice presente nelle attuali organizzazioni sociali statuali tra la esistenza di barriere ambientali e comportamentali e il grado di attuazione del processo di inclusione, trova spazio l’istituto della tutela contro le discriminazioni che costituisce il solo strumento, in una società in cui sussistono ostacoli che impediscono l’accesso alle pari opportunità, che il disabile ha perchè i suoi diritti e le sue libertà, riconosciute in astratto, trovino possibilità di esercizio e di godimento.
Tanto più avanzato il processo di inclusione, tanto meno risulta necessario il ricorso alla tutela giudiziaria. La Convenzione ONU sui diritti dei disabili non usa un concetto unitario di discriminazione.
Infatti, secondo l’art. 2, punto 3 della Convenzione, la discriminazione indica qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, in condizioni di parità con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo.
Include tutte le forme di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole intendendosi per tale le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un onere economico sproporzionato, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, sulla base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali.
Nei successivi articoli dal 5 al 30, la Convenzione ONU specifica i diritti dei disabili e le discriminazioni che possono verificarsi a loro danno sia in relazione al loro essere donna o bambino, sia che si verifichino nel campo economico, sociale, culturale, dell’istruzione del lavoro, della sanità, della mobilità personale, della libertà e sicurezza della persona, dell’accessibilità.
Le norme della Convenzione si integrano con quelle della legge statale n. 67/06 offrendo al Giudice sia una puntuale indicazione delle finalità perseguite attraverso la tutela dalle discriminazioni a danno dei disabili, sia l’indicazione delle forme in cui possono attuarsi sia in relazione al tipo di persona (uomo, donna, bambino) sia gli ambiti in cui possono essere perpetrati.
E’ necessario precisare che, allo stato, se non vi sono limiti all’esercizio della tutela giudiziaria tutte le volte in cui atti o comportamenti offendono la dignità, i diritti e le libertà del disabile, per quanto attiene la eliminazione di barriere ambientali, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 251 del luglio 2008, ha sostenuto che nel nostro ordinamento non esiste un principio generale di accessibilità a tutela delle svariate posizioni di relazioni sociali ed ambientali in cui si trova ad essere coinvolto un soggetto disabile.
La tutela è concessa solo laddove è specificamente disciplinata dal legislatore nazionale, ciò in quanto gli ambiti in cui possono realizzarsi discriminazioni afferiscono anche ad altri interessi la cui valutazione e il cui contemperamento non può che spettare al legislatore.
Si tratta di una valutazione non condivisibile in quanto il Giudice, nei casi concreti, laddove non dovesse trovare una specifica disposizione applicabile, può sempre valutare gli interessi coinvolti nella vicenda sottoposta al suo esame e dare tutela laddove l’esercizio dei diritti e delle libertà del disabile non si pone in contrasto con altri interessi individuali o collettivi di pari grado o superiori.
Sotto il profilo procedurale, l’art. 3 della citata legge n. 67/06 dispone che la tutela giurisdizionale avverso atti e comportamenti discriminatori è attuata nelle forme previste dall’art. 44 del decreto legislativo sull’immigrazione n. 286/98. In sintesi, il disabile che ritiene di aver subito una discriminazione può proporre, anche personalmente, ricorso al Tribunale civile in composizione monocratica.
Il Giudice, con ordinanza impugnabile entro 10 giorni davanti al Tribunale collegiale, se ritiene fondata la prospettazione fatta dal disabile, dispone la rimozione degli effetti e il risarcimento del danno anche se di natura non patrimoniale. Il carattere di urgenza del provvedimento comporta che il Giudice procede senza formalità, come ritiene opportuno, agli atti istruttori ritenuti necessari.
I provvedimenti di accoglimento sono immediatamente esecutivi e, in caso di mancata esecuzione, è prevista, a norma dell’art. 388 del codice penale, la pena della reclusione fino a tre anni o la multa da 103 a 1032 euro. Con il provvedimento di condanna, il Giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza, a spese del convenuto, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale. Importante sottolineare che, a maggiore tutela del disabile, il comma 2 dell’art. 3 della legge citata prevede che il disabile, a prova del comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti che il Giudice valuterà secondo il suo prudente apprezzamento, ai sensi dell’art. 2729 del codice civile.
Di particolare importanza l’art. 4 della legge n. 67/06. Infatti, tale norma prevede che la legittimazione ad agire in giudizio per ricevere tutela contro atti discriminatori non spetta solo al soggetto che riceve danno e quindi  titolare dello specifico interesse a promuovere una azione legale, ma anche alle Associazioni di categoria.
Tutto ciò a due condizioni: a) devono risultare iscritte in apposito elenco a seguito di decreto del Ministro delle pari opportunità di concerto con il Ministro del lavoro, emesso tenuto conto delle finalità statutarie e della stabilità dell’organizzazione; b) devono essere munite di apposita delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, da parte del soggetto passivo della discriminazione.
Sussistendo queste condizioni, le Associazioni e gli enti di cui innanzi possono promuovere o intervenire nei giudizi per danno subito dai disabile e ricorrere in sede di Giurisdizione amministrativa per l’annullamento degli atti lesivi dei diritti dei disabili. Si tratta di una previsione che ha carattere dirompente.
Infatti, questa forma di sostituzione processuale, affidata alle Associazioni o Enti di categoria, completa la effettività della tutela contro gli atti discriminatori nei confronti dei disabili.
Questi, in genere, anche e soprattutto per condizioni economiche svantaggiate, finiscono col subire senza difendersi contro atti che ledono i propri diritti. Il potersi affidare a strutture associative, invece, significa utilizzare mezzi e risorse che queste hanno per avviare azioni legali che richiedono competenza tecnica e forza organizzativa.
Per la prima volta, nel nostro Ordinamento le Associazioni rappresentative del mondo della disabilità vengono chiamate a svolgere un ruolo non solo di partecipazione alla formazione della politica a favore delle categorie deboli che rappresentano ma a poter utilizzare uno strumento coercitivo giudiziario, laddove l’insensibilità dei pubblici poteri non provvede a dare risposte immediate alle esigenze di vita dei disabili.
A tal proposito, vale la pena ricordare che con Decreto ministeriale del 21 giugno 2007 è stata istituita una Commissione per la valutazione della sussistenza dei requisiti degli Enti ed Associazioni che fanno domanda per essere iscritti nell’apposito elenco previsto dall’art. 4 della legge n. 67/06. Numerose sono state le richieste, che possono essere presentate entro il 30 aprile o 30 ottobre di ogni anno, numerose le ammissioni.
Questo dato ci spinge a concludere con una constatazione e un auspicio. La constatazione è che il mondo associativo è presente ed intende assumere un ruolo sempre più attivo e sempre più forte verso i Pubblici poteri a favore di una politica di tutela sostanziale del mondo della disabilità; l’auspicio è che le azioni giudiziarie possano essere relegate ad un ambito di marginalità e che si assista ad un processo di inclusione il più avanzato possibile in un ritrovato spirito di sensibilità sociale che fa parte della nostra tradizione storica e culturale.